Muovendomi fra l’Asia e l’Europa in treno, in nave, in macchina, a volte anche a piedi, il ritmo delle mie giornate è completamente cambiato, le distanze hanno ripreso il loro valore e ho ritrovato nel viaggiare il vecchio gusto di scoperta e di avventura.
D’un tratto, senza più la possibilità di correre a un aeroporto, pagare con una carta di credito, schizzar via ed essere, in un baleno, letteralmente dovunque, sono stato costretto a riguardare al mondo come a un intreccio complicato di paesi divisi da bracci di mare che vanno attraversati, da fiumi che vanno superati, da frontiere per ognuna delle quali occorre un visto; e un visto speciale che dica «via terra», come se questa via, specie in Asia, fosse nel frattempo diventata così insolita da rendere automaticamente sospetto chiunque si ostini a usarla.
Spostarsi non è stato più questione di ore, ma di giorni, di settimane. Per non fare errori, prima di mettermi in viaggio, ho dovuto guardare bene le carte, rimettermi a studiare la geografia. Le montagne sono tornate a essere possibili ostacoli sul mio cammino e non più delle belle, irrilevanti rifiniture in un paesaggio visto da un oblò.
Il viaggiare in treno o in nave, su grandi distanze, m’ha ridato il senso della vastità del mondo e soprattutto m’ha fatto riscoprire un’umanità, quella dei più, quella di cui uno, a forza di volare, dimentica quasi l’esistenza: l’umanità che si sposta carica di pacchi e di bambini, quella cui gli aerei e tutto il resto passano in ogni senso sopra la testa.
Senso della vastità del mondo
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