Dove porre il limite del corpo e del mondo, giacché il mondo è carne?
Il mondo visto non è nel mio corpo e il mio corpo non è nel mondo visibile a titolo ultimo: carne applicata a una carne, il mondo non la circonda e nemmeno è circondato da essa. Partecipazione e imparentamento al visibile, la visione non l’avvolge e non ne è avvolta definitivamente. La pellicola superficiale del visibile non è se non per la mia visione e per il mio corpo. Ma la profondità, sotto questa superficie, contiene il mio corpo e contiene la mia visione. C’è inserimento reciproco e intreccio dell’uno nell’altro. Di modo che il vedente, essendo preso in ciò che vede, vede ancora sé stesso: c’è un narcisismo fondamentale di ogni visione; di modo che, per la stessa ragione, la visione che il vedente esercita, il vedente stesso la subisce altresì da parte delle cose e, come hanno detto molti pittori, io mi sento guardato dalle cose. Vedente e visibile sono in un rapporto di reciprocità e non si sa più chi vede e chi è visto. La carne non è materia, non è spirito, non è sostanza. È l’inaugurazione del dove e del quando, possibilità ed esigenza del fatto, in una parola, fatticità, ciò che fa sì che il fatto sia fatto. Se c’è un rapporto a sé stesso del visibile che mi attraversa e mi costituisce come vedente, questo circolo che io non faccio, che mi fa, questo avvolgimento del visibile sul visibile, può attraversare altri corpi quanto il mio, e se ho potuto comprendere come in me nasce quest’onda, come il visibile che è laggiù è simultaneamente il paesaggio, a maggior ragione posso comprendere che altrove esso si richiude su sé stesso, e che ci sono altri paesaggi oltre che il mio. I colori, i rilievi tattili dell’altro sono per me un mistero assoluto, mi sono sempre inaccessibili. Ma ciò non è del tutto vero: perché io ne abbia non già un’idea, un’immagine o una rappresentazione, ma per così dire l’esperienza imminente, è sufficiente che io guardi un paesaggio, che ne parli con qualcuno; allora, in virtù dell’operazione concordante del suo corpo e del mio, ciò che io vedo passa in lui, questo verde individuale del prato sotto i miei occhi invade la sua visione senza abbandonare la mia, io riconosco nel mio verde il suo verde. Qui non c’è il problema dell’alter ego perché non sono io a vedere, non è lui a vedere, perché ci abita entrambi una visibilità anonima, una visione in generale, in virtù della proprietà primordiale della carne di irradiarsi ovunque e per sempre pur essendo qui e ora, di essere dimensione e universalità pure essendo individuo.
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