Lo prese alla sprovvista il pensiero che ogni giorno qualcuno entra nel carcere, come ogni giorno qualcuno muore. Lo sapevano questo, lo vedevano le donne, quella bianca Carmela, la madre, la gente di Giannino, Concia? E l’altra, la violentata, e le sue vecchie, e tutti quanti? Ogni giorno entra qualcuno nel carcere, ogni giorno su qualcuno si chiudono le quattro pareti e comincia la vita remota e angosciosa dell’isolamento. Stefano decise di pensare a Giannino in questo modo. Teste bruciate come lui, sudici cenci come quei villani, ogni giorno entravano a popolare di carne inquieta e di pensieri insonni le sproporzionate muraglie.
Stefano si chiese con un mezzo sorriso che cosa c’era dunque di tanto essenziale in un cielo, in un viso umano, in una strada che si perde tra gi ulivi, da sbattere con tanto desiderio contro le sbarre il sangue di chi è carcerato. Faccio forse una vita gran che diversa? si disse con una smorfia; ma sapendo di mentire, serrò le mascelle e fiutò l’aria vuota.
Quel giorno, mentre mangiava al tavolino dell’osteria, s’accorse di non ricordare quando aveva veduto Giannino per l’ultima volta. Forse ieri per strada? o all’osteria? o il giorno innanzi? Non trovò. Voleva saperlo perché presentiva che Giannino non sarebbe più vissuto con lui che come un ricordo; provvisorio e patetico come tutti i ricordi, come quello della domenica remota in cui forse era un altro. Ora sarebbe stato solo veramente, e quasi gli piacque, e lo riprese l’amarezza della spiaggia.
Vita remota e angosciosa dell’isolamento
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